Ascesa e caduta di un dio dello sport


Dalle Alpi francesi solcate da una tempesta,
si leva solenne, al di là delle nuvole della fantasia, un dio dello sport:
si chiama Marco, il nome forte di un evangelista.
-Candido Cannavò-



Era un dio Marco Pantani. Un dio dello sport, come lo descrisse la penna di Candido Cannavò sulla prima pagina della Gazzetta dello Sport il 28 luglio 1998. Un dio salito fino al paradiso prima della tremenda caduta che lo ha portato all’inferno, una caduta iniziata il 5 giugno 1999 e finita meno di cinque anni più tardi. Finita nel modo più tragico che si possa immaginare, in una stanza d’albergo nel giorno di San Valentino. Il personaggio più amato nella storia del ciclismo italiano, l’ultima vera leggenda in grado di emozionare appassionati e semplici spettatori. L’ultimo personaggio sportivo che ha saputo tenere incollati milioni di spettatori alla televisione per vederlo danzare sui pedali, curvo sul manubrio in quell’inconfondibile posizione che solo lui riusciva a tenere. Una posizione da velocista. Mani basse sul manubrio mentre la strada va su. 9%, 10%, 15%. Sulle rampe più ripide, lo scalatore venuto dal mare dava tutto sé stesso. Sulle rampe più ripide ha fatto emozionare un’intera nazione.

La carriera – Marco non è stato certo un vincente. Nella sua, purtroppo breve, carriera ha collezionato 46 vittorie da professionista tra il 1992 e il 2003. Ma sono vittorie che nessun appassionato di ciclismo può dimenticare. La stella di Pantani inizia a brillare il 5 giugno 1994, su una delle salite più dure d’Europa. Nella tappa che va da Merano all’Aprica Pantani, dopo aver vinto quella del giorno precedente, attacca sul Mortirolo e stacca sia la maglia rosa Berzin sia lo spagnolo Miguel Indurain. Passa in cima al passo del Mortirolo da solo, aspetta i rivali, riprende fiato, si fa raggiungere e poi scatta di nuovo sul valico di Santa Caterina. Va via, arriva all’Aprica a braccia alzate. Bastava guardarlo per capire che aveva qualcosa di diverso dagli altri. Quando la strada saliva sembrava che la sua bici non toccasse nemmeno per terra, sembrava galleggiasse leggera e composta ondeggiando dolcemente ad ogni pedalata del Pirata. Quella bandana lanciata via come ad annunciare l’imminente attacco e poi via. In piedi sui pedali a fuggire da tutto e da tutti verso un traguardo da tagliare a braccia alzate. Come quel 4 giugno 1998 e quel traguardo di Montecampione tagliato a braccia aperte. Gli occhi socchiusi e un sospiro profondo, come a dire: “anche questa è andata. Anche oggi ce l’ho fatta.”

Quell’anno Marco fu insuperabile. La vittoria di Montecampione gli spianò la strada per la vittoria del suo primo giro d’Italia conquistato con un vantaggio di 1’33’’ di vantaggio sul russo Tonkov. Ma il bello doveva ancora venire. Dopo il Giro, Pantani si mise in testa di correre anche il Tour e di provare ad entrare nell’olimpo del ciclismo vincendo entrambe le corse nello stesso anno. L’inizio non fù entusiasmante, dopo sette tappe il ritardo in classifica generale era di circa 5 minuti e i presentimenti su quel Tour de France non sembravano essere buoni. Ma Marco, si sa, era in grado di tirar fuori tutto quello che aveva nelle situazioni più difficili. Giorno dopo giorno riuscì a ridurre il suo ritardo, vincendo anche la tappa di Plateau de Beille, ma il capolavoro lo fece il 27 luglio. “Sulle alpi francesi solcate da tempesta” Marco attacca sul Galibier, a 50km dal traguardo. La nebbia e la pioggia fitta a rendere quella giornata, quella salita, la cornice perfetta di un’impresa che rimane nella storia. Un’impresa con cui Marco ha cambiato maglia e vita. Al traguardo arriva con 9 minuti di vantaggio sul tedesco Jan Ullrich e indossa la maglia gialla che porterà fino a Parigi. È trionfo. Il 2 agosto 1998, sugli Champs-Elysées, Pantani può sorridere. Il 2 agosto 1998 il pirata diventa il settimo, e ultimo, corridore a vincere Giro e Tour nello stesso anno. Il 2 agosto 1998, Marco è leggenda.

Una leggenda che è stata in grado di rialzarsi dopo ogni caduta. Perché dietro quei successi, c’è un Pantani maledetto. Un Pantani che ha dovuto affrontare ogni genere di sfortuna. Dopo l’incidente del 1995, quando durante la Milano-Torino fu investito da un fuoristrada e si ruppe tibia e perone, si riprende e torna a correre con una squadra costruita attorno a lui. Sembra essere finalmente il suo anno, quello della consacrazione. E invece no. E invece un’altra volta ci si mette la sfortuna. Durante la 7 tappa, lungo la discesa dal valico di Chiunzi, un gatto gli attraversa la strada mentre è lanciato a oltre 50 km/h. Marco sbanda, sbatte contro il muro, cade e si rialza. Finisce la tappa ma all'ospedale scoprì di aver subito la lacerazione di un centimetro nelle fibre muscolari della coscia sinistra. Abbandonò la corsa. E forse abbandona anche un po’ di leggerezza.

La caduta – il 5 giugno 1999 a Madonna di Campiglio, quando sta per iniziare la penultima tappa di un Giro dominato, inizia la fine della carriera e della vita del Pirata. Alle 10.10 del mattino, a un’ora dall’inizio della tappa vengono diffusi i risultati del test antidoping condotto su diversi corridori. Era un test programmato da tempo e per questo nessuno lo temeva particolarmente, in un ciclismo invaso da sostanze dopanti era infatti sufficiente risultare entro i limiti per evitare squalifiche. Ma quella mattina a Madonna di Campiglio accadde l’impensabile: nel sangue di Pantani viene riscontrata una concentrazione di globuli rossi superiore al consentito. Il valore di ematocrito rilevato al cesenate fu infatti del 52% contro il limite del 50% consentito dal regolamento. Per qualche minuto si pensa se insabbiare il caso e far concludere la corsa a Pantani o dire la verità. È Candido Cannavò, direttore della Gazzetta dello Sport, a prendere la decisione finale: i dati ufficiali vengono diffusi, Marco Pantani viene squalificato con effetto immediato. Il pirata è incredulo, non vuole lasciare l’albergo, non vuole lasciare la corsa. È convinto che non sia possibile un valore così alto, è convinto che ci sia qualcosa di sbagliato. Esce dall’albergo scortato dai carabinieri mentre una folla di giornalisti lo assale, è la caduta del dio dello sport. È la fine di una carriera straordinaria, perché anche se la squalifica è di soli 15 giorni, il contraccolpo psicologico è devastante per Pantani: “C'è qualche cosa di strano.” Dice ai giornalisti che lo attendono in strada “Ripartire dopo una batosta come questa... L'ho fatto dopo grossi incidenti, mi sono sempre rialzato, ma questa volta non mi rialzo più.” E infatti Marco non si rialzerà più. Quel giorno a Madonna di Campiglio finì la carriera dello scalatore venuto dal mare. Il suo tentativo di tornare in sella nelle stagioni successive naufragò. Aveva perso la spensieratezza e la fiducia. Aveva perso la voglia di stare in un mondo che lo aveva fatto cadere.

Mentre da Madonna di Campiglio torna a Cesenatico, Pantani decide di fare una sosta. Un prelievo volontario in un centro specializzato di Imola per vedere cosa non andasse nel suo sangue. Il risultato è inequivocabile: il livello di ematocrito è intorno al 45%. Ben lontano dal 52% rilevato solo poche ore prima. La conferma che qualcosa non andava.

La morte – da quel giorno per Pantani inizia un vortice infinito che lo trascina sempre più in basso. Quel dio dello sport che come un profeta scalava le montagne per diffondere il suo verbo si ritrova all’improvviso all’inferno. La depressione prima e la droga poi. Fino al drammatico epilogo di quel tragico San Valentino. Il 14 febbraio 2004, il corpo senza vita di Marco Pantani viene ritrovato nella stanza D5 al residence ‘Le Rose’ di Rimini dove alloggiava da 4 giorni. Lontano da tutti, da solo con la sua depressione. La stanza a soqquadro e una dose di cocaina fecero subito pensare ad un delirio da overdose e l’autopsia stabilì che la causa della morte fosse un edema polmonare. Tanto bastò per far emergere quella come verità. Ma c’è qualcosa in questa vicenda che non torna. Dal metodo che sarebbe stato utilizzato per assumere la cocaina, l’ingestione secondo i carabinieri, al caos troppo ordinato per essere frutto di un delirio. Tonina Pantani, la mamma di marco che da allora cerca la verità, ha sempre fatto notare come le firme per il prelievo dei soldi che Pantani avrebbe usato per comprare la droga siano state falsificate e che non c’era traccia di droga nella camera del residence, se non quella che Marco avrebbe ingerito. Dubbi anche sulla stanza messa “scientificamente” in disordine e non in modo naturale da una singola persona in preda a overdose come attestato dalla Procura. Infine quei residui di cibo cinese, che Pantani detestava, l’assenza di una bottiglia d’acqua per ingerire la cocaina e alcuni lividi sul corpo dell’atleta pestato probabilmente da più persone per costringerlo a bere l’acqua con la cocaina. E sulla vicenda, ci sarebbe infatti una mano esterna al mondo del ciclismo. A rivelarlo per primo fu Renato Vallanzasca che, in una lettera indirizzata a Tonina, affermo che un suo amico habitué delle scommesse clandestine, lo abbia avvicinato cinque giorni prima del “fatto” di Madonna di Campiglio consigliandogli di scommettere sulla sconfitta di Pantani per la classifica finale, e assicurandogli che “il Giro non lo vincerà sicuramente lui”. Una mano criminale confermata negli anni anche dalla procura di Forlì che, prima di archiviare le indagini, evidenziò come “un clan camorristico minacciò un medico per costringerlo ad alterare il test e far risultare Pantani fuori norma”.

Quello che accadde dal 1999 al 20004 è troppo confuso e nascosto per poter sapere con esattezza cosa portò alla morte del pirata ma, se è oramai certo che l’esclusione dal giro del 1999 fosse un modo per fermare il campione romagnolo e incassare milioni in scommesse, possiamo solo ipotizzare cosa accadde dopo. Il campione ferito che cerca la verità su quel giorno. I suoi amici raccontano di un Pantani che non si da per vinto e indaga, cerca i nomi, cerca i motivi. Probabilmente Marco ha scoperto qualcosa. Probabilmente era troppo vicino alla verità. Probabilmente andava fermato in qualche modo per non scoperchiare un vaso di pandora. A fermarlo fu quella morte assurda su cui ancora aspettiamo verità. Una morte che ci ha tolto l’uomo, cinque anni dopo l’inganno che ci tolse il campione. Quel campione che ci faceva saltare sul divano ogni volta che lanciava la bandana. Quel campione che tenne un’intera nazione sognante davanti alla TV mentre leggero fluttuava nella nebbia del Galibier. Quel campione che ci fece scoprire il ciclismo e ci fece innamorare dei pirati. Perché da allora nulla è più come prima ma nel nostro cuore resterà indelebile il ricordo. In piedi sui pedali, mani basse sul manubrio, occhi dritti sulla strada. La bandana gettata via, l’orecchino che luccica e quello striscione che attende il suo passaggio:
“Dio c’è ed è pelato”.

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