“È lei Giorgio Ambrosoli?”
“Si, Sono io”
“Le chiedo scusa, avvocato”
Quattro colpi, poi il silenzio.
“È lei Giorgio Ambrosoli?”
“Si, Sono io”
“Le chiedo scusa, avvocato”
Quattro colpi, poi il silenzio.
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Giorgio Ambrosoli
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Era la sera dell’11 luglio 1979 e nel centro di Milano,
in via Morozzo della Rocca 1, veniva ucciso l’avvocato Giorgio Ambrosoli. Si
stava occupando, in veste di Commissario liquidatore, del fallimento della
Banca Privata Italiana di Michele Sindona. Fu proprio quell’ultimo incarico,
affrontato in modo integerrimo e coraggioso fino alla fine, a portare all’omicidio
commissionato, dallo stesso Sindona, al killer americano William Aricò. Poco
prima di mezzanotte, dopo che con alcuni amici aveva assistito all’incontro di
boxe tra Lorenzo Zanon e Alfio Righetti, la vita di Giorgio Ambrosoli fu interrotta
da quattro colpi di P38.
In un celebre libro, Corrado Stajano lo definì un “eroe borghese”.
In effetti guardando alla sua vita e a come, a partire dal settembre 1974,
aveva affrontato la liquidazione della banca di Sindona la definizione sembra
calzare alla perfezione. Fu l’allora presidente della Banca d’Italia, Guido Carli,
a nominarlo commissario liquidatore della Banca Privata Italiana, nata pochi
mesi prima dalla fusione tra la Banca Privata Finanziaria e la Banca Unione. Il
compito dell’avvocato milanese era di accertare lo stato d'insolvenza, lo stato
passivo e il piano di riparto tra i creditori. Indagando sulle operazioni
finanziarie e sui conti delle banche, Ambrosoli non ci mise molto a capire che
qualcosa non quadrava: il patrimonio iniziale della BPI era praticamente
inesistente. La banca era insomma nata già sull’orlo del fallimento in quanto il
patrimonio delle due banche era stato interamente assorbito dalle perdite,
coperte con numerose irregolarità amministrative.
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Michele Sindona
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Il piano di Sindona era semplice: far salvare l’istituto
dallo stato a spese dei cittadini. A Roma, come sarebbe emerso dalle indagini,
era pronta una rete di relazioni che avrebbe sanato tutto a spese dei
contribuenti. Era necessario solo un ultimo passo, una firma di Ambrosoli che
richiedesse il salvataggio della banca da parte dello stato. Quella firma, però,
l’avvocato milanese non la appose mai. Indagò anzi con rettitudine e profondo
senso dello stato, riuscendo a recuperare 249 miliardi con cui vennero
rimborsati i creditori principali e in maniera minore gli altri.
Ma Sindona non era solo un banchiere. Alla fine degli
anni ’60 l’Interpol lo aveva segnalato per riciclaggio di denaro proveniente
dal narcotraffico. Negli anni ’70 attraverso gli istutiti Finbank di Ginevra e
l’Amincor Bank di Zurigo riciclava i soldi della famiglia mafiosa Bontade-Inzerrillo-Spatola.
Nel 1974 Giulio Andreotti, allora presidente del Consiglio, lo aveva definito
il “Salvatore della Lira” per una fantomatica operazione di sostegno alla
moneta nazionale. Le relazioni e le amicizie con le più alte sfere politiche e la
vicinanza ad ambienti criminali facevano di Sindona una delle personalità più
influenti a vari livelli.
La rettitudine di Giorgio Ambrosoli, però, non venne meno
neanche di fronte a questa diffusa rete di malaffare. Non indietreggio nemmeno nel
1978 quando ricevette una serie di telefonate minatorie che in seguito si
scoprì essere effettuate da Giacomo Vitale, cognato
del boss di Cosa Nostra Stefano Bontate legato a Sindona. Neppure l’ultimo,
inequivocabile, segnale lo fermò: il ritrovamento di una pistola su un bidone
della spazzatura da parte di un commesso della BPI un mese prima del suo omicidio.
Lasciato solo dallo Stato in cui credeva più di ogni altra cosa, Ambrosoli
continuò con fermezza potendo contare come suo unico referente politico su Ugo
La Malfa, Ministro del Tesoro. Sapeva a cosa stesse andando incontro, era
perfettamente a conoscenza dei rischi che correva, ma il suo senso dello stato
gli impose di continuare. “Pagherò a molto caro prezzo l'incarico: lo sapevo
prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto perché per me è stata
un'occasione unica di fare qualcosa per il paese” scrisse in una lettera
indirizzata alla moglie e datata 25 Febbraio 1975. “A quarant'anni, di colpo,
ho fatto politica e in nome dello Stato e non per un partito. Con l'incarico,
ho avuto in mano un potere enorme e discrezionale al massimo ed ho sempre
operato - ne ho la piena coscienza - solo nell'interesse del paese, creandomi
ovviamente solo nemici”.
Quella lettera, Ambrosoli, la terminò con un passaggio
toccante e sentito. Un testamento rivolto alla moglie che solo dopo la sua
morte la troverà nei cassetti della sua scrivania. “Qualunque cosa succeda,
comunque, tu sai che cosa devi fare e sono certo saprai fare benissimo. Dovrai
tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi
abbiamo creduto [...] Abbiano coscienza dei loro doveri verso sé stessi, verso
la famiglia nel senso trascendente che io ho, verso il paese, si chiami Italia
o si chiami Europa. Riuscirai benissimo, ne sono certo, perché sei molto brava
e perché i ragazzi sono uno meglio dell'altro. Sarà per te una vita dura, ma
sei una ragazza talmente brava che te la caverai sempre e farai come sempre il
tuo dovere costi quello che costi”.
L’11 luglio 1979 Ambrosoli terminò la rogatoria di fronte
al giudice istruttore Giovanni Galati. Mancava solo la firma per mettere fine a
quel processo iniziato 5 anni prima. Passarono solo poche ore però e la sua
vita cessò, in modo tragico, sul passo carrabile di casa sua in via Morozzo
della Rocca 1. I Funerali si svolsero il 14 luglio nella chiesa di San Vittore
a Milano e ancora una volta, lo Stato in cui credeva non si presentò. Solo il futuro
Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi si presentò ai funerali che videro invece una
grande partecipazione della cittadinanza milanese che tributò un ultimo,
commosso, saluto all’avvocato morto per lo Stato e per colpa dello stato: in
due parole un “eroe borghese”.
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