La colonizzazione ai
vertici delle società calcistiche offre alla criminalità organizzata vantaggi
importanti trasformando il club in uno strumento nelle mani dei clan. I numeri
dimostrano come, dai club di provincia fino alla Serie A, le mafie nel calcio siano
sempre più presenti
A partire
dagli anni ’90 il calcio è diventato qualcosa più di un semplice sport. Sotto
la spinta di sempre maggiori interessi economici il calcio professionistico è
diventato un business miliardario che ha generato nel 2015 un giro d’affari di
3,7 miliardi, pari a 5,7 punti del PIL nazionale. La distribuzione di questa
cifra è però fortemente polarizzata verso le squadre professionistiche che hanno
originato circa il 70% dei ricavi totali. È evidente quindi come si possano
individuare due mondi quasi paralleli: da una parte le squadre
professionistiche con introiti importanti e un giro d’affari enorme, dall’altra
le squadre dilettantistiche lontane dai riflettori e con poche risorse economiche.
Sono proprio le società della Lega Nazionale Dilettanti, vera e propria base
del calcio italiano con quasi quindicimila società e circa un milione di
giocatori, quelle maggiormente esposte alle mire della criminalità organizzata.
Seguendo
dinamiche simili alla penetrazione in altri settori economici le cosche
individuano i soggetti con problemi finanziari e, sfruttando i controlli
superficiali del calcio minore, si offrono come soluzione attraverso la vendita
della squadra a una nuova proprietà spesso nascosta dietro un prestanome.
Una volta
acquistata la proprietà di un club esso diventa uno strumento nelle mani del
clan che lo utilizza per perseguire i propri interessi economici e sociali.
Spesso accade che una volta rilevata la proprietà di una squadra il sodalizio
criminale si disinteressi delle sorti sportive della squadra. È accaduto ad
esempio alla SSC Giuliano società campana posta sotto sequestro in seguito
all’operazione “Arcobaleno”, condotta nel 2010 dalla Direzione Distrettuale
Antimafia di Napoli, perché riconducibile al latitante Giuseppe Dell’Aquila
esponente apicale del clan camorristico Mallardo. Questa vicenda, come
evidenziato dalla Commissione Parlamentare Antimafia, dimostra il disinteresse
del clan alle sorti della squadra che in tre anni precipitò dalla C2 fino al
campionato Eccellenza. Il sodalizio mafioso al vertice del club aveva infatti
interessi di tipo puramente economico e sfruttava il club per imporre ai
commercianti locali la sponsorizzazione della squadra garantendosi importanti
introiti perfettamente leciti.
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L'arresto di Marcello Pesce nel 2016 |
Diversi erano
invece gli interessi nel calcio della cosca di ‘ndrangheta Pesce per cui nel
2011 la Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria ha disposto il sequestro di tre squadre: l’AS Rosarno e la ASD Cittanova Interpiana, in Calabria, e il Sapri Calcio, in Campania. Attraverso la gestione dei tre club Francesco e Marcello Pesce avevano costruito un disegno criminale complesso ed articolato. Oltre ad una legalizzazione del pizzo operata, come nel caso del Giuliano Calcio, attraverso l’imposizione di sponsorizzazioni ai commercianti locali il clan aveva altri molteplici interessi di carattere diverso. La gestione del club di Rosarno, feudo della famiglia Pesce, era allo stesso tempo emanazione di un controllo totale del territorio e strumento per consolidare e accrescere il consenso sociale grazie alle vittorie sul campo che davano lustro ai suoi proprietari. Il Sapri, riuscito
ad iscriversi al campionato 2005/2006 solo grazie ad una importante immissione
di liquidità da parte di Marcello Pesce, era invece un avamposto del clan per
investimenti in una terra, il Cilento, da tempo finita nelle mire della
criminalità calabrese soprattutto per il settore alberghiero e dello
smaltimento dei rifiuti. Attraverso la gestione della squadra Marcello Pesce
puntava ad aprire un canale diretto tra la cosca e il territorio campano in
modo da essere avvantaggiato in futuri affari. Il ruolo dell’Interpiana è stato
invece chiarito dal collaboratore di giustizia Salvatore Facchinetti il quale
ha dichiarato che l’interesse dei Pesce per la gestione delle squadre era
collegata ai contatti garantiti dalla frequentazione di giocatori provenienti
da territori diversi. Sfruttando la rete di contatti e il loro legame con il
territorio d’origine il clan era riuscito a creare una rete che permetteva di sfruttare
nuove aree di sviluppo per le attività illecite.
Ma se la presenza della criminalità nelle divisioni
inferiori è sempre più diffusa, non mancano tentativi di scalata ai club del
massimo campionato italiano. È quanto accaduto nel 2005 alla SS Lazio,
vincitrice in quegli anni di uno scudetto e due coppe Italia, finita al centro
di un tentativo di acquisto da parte del clan dei Casalesi. Un primo approccio si
ebbe attraverso l’imprenditore Giuseppe Diana proprietario della “Diana Gas”,
azienda specializzata nella distribuzione di bombole e combustibili operante in
Campania, con stretti legami con il boss dei casalesi Michele Zagaria e con la famiglia
Schiavone. La proposta portata al presidente biancoceleste Lotito prevedeva la
sponsorizzazione della squadra durante le gare europee per un compenso di due
milioni di euro. La dirigenza, pur riconoscendo l’offerta come vantaggiosa,
decise di rifiutare. Ad insospettire Lotito infatti vi erano due aspetti: un
primo dubbio riguardava l’interesse che poteva avere una
società operante solo in Campania a sponsorizzare una squadra romana per le
sole partite internazionali, ma ancora di più lo allarmò una particolare clausola
introdotta da Diana nella trattativa: il pagamento sarebbe avvenuto in contanti.
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Le contestazioni al presidente Lotito |
Il gruppo criminale però, dopo
questo rifiuto, non si diede per vinto e contattò Chinaglia, ex bandiera
biancoceleste, convincendolo a porsi come volto della cordata che tenterà
l’acquisto della società. Contemporaneamente prese contatti con la frangia più
calda della tifoseria laziale che, scontenta della gestione del presidente
Lotito, iniziò una feroce contestazione alla dirigenza spingendo per un ritorno
al vertice della società del mai dimenticato idolo. A guidare la rivolta dei
tifosi fu in particolare il gruppo ultras denominato ‘Irriducibili’ guidato da
Fabrizio “Diabolik” Piscitelli. L’ultras, ucciso giovedì in un agguato a Roma,
fu condannato nel 2015 per aver condotto una campagna intimidatoria verso il
presidente biancoceleste per convincerlo a cedere il club. Nel frattempo la
cordata iniziò a muoversi prendendo contatti con i vertici della attraverso il
paravento di una fantomatica holding farmaceutica ungherese disposta ad
acquistare subito la proprietà del club e ad immettere nuovi capitali nel
bilancio societario.
I capitali vantati dalla cordata
in realtà non erano altro che i proventi delle attività illecite trasferiti
all’estero e, una volta ripuliti, fatti rientrare in Italia attraverso istituti
bancari Svizzeri, Tedeschi e Ungheresi. Le oscillazioni del titolo in borsa e
gli strani movimenti di capitali allarmarono le autorità competenti e a tal
punto da rendere necessario il blocco dell’operazione e l’arresto degli attori
coinvolti. Chinaglia si dichiarò sempre all’oscuro di questa vicenda e,
raggiunto da un mandato di arresto internazionale, morì latitante negli Stati
Uniti nel 2012.
L’obiettivo della cordata, in questo caso, non era il
profitto ma il potere. L’acquisto di questa squadra non avrebbe certo portato
ad ingenti guadagni ma avrebbe aperto le porte dello Stadio Olimpico al clan di
Casal di Principe. Ogni
domenica, infatti, il cuore della “Tribuna Monte Mario” si popola di figure di
spicco, la Roma che conta è riunita per novanta minuti sulle 230 poltroncine
della tribuna autorità: parlamentari, ministri, uomini d’affari, imprenditori,
persino il Presidente della Repubblica assiste a qualche partita. Avere un
posto in quel settore, per di più entrandoci da protagonista, avrebbe assunto
un valore incalcolabile per il clan. Non solo un prestigio enorme per i
soggetti criminali coinvolti, ma anche e soprattutto una serie di frequentazioni
con personaggi difficilmente avvicinabili in altro modo. Se si fosse
concretizzato il progetto di Diana il clan avrebbe avuto a disposizione un
esercito di potenziali pedine da muovere al momento giusto nel suo complesso
gioco criminale.
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