L'evoluzione del business delle scommesse per l'organizzazione campana rappresenta un esempio paradigmatico della capacità delle mafie di sfruttare situazioni diverse a proprio vantaggio. Dal totonero degli anni '70 alla gestione dei centri scommessi per adattarsi alla società che cambia.
Sono molti gli studiosi secondo
cui il termine camorra deriverebbe dalla morra, gioco diffuso tra il
“popolino” in cui vinceva chi indovinava il numero che i due giocatori
sommavano aprendo insieme, contemporaneamente, le dita di una mano. Il
camorrista, secondo questa visione era colui che dirigeva il gioco, impedendo
litigi e risse e guadagnando con esso. Il legame tra la criminalità campana e
il gioco d’azzardo risulta dunque essere antico e consolidato e questo
interesse non poteva certo risparmiare uno dei settori più ricchi del gioco
d’azzardo: il calcioscommesse. Il business delle scommesse non è più gestito in
maniera monopolistica dall’organizzazione campana. Molte mafie, la ‘ndrangheta
in primis, hanno iniziato a sfruttare questa inesauribile fonte di profitti ma l’analisi
dell’interesse dei clan campani ci sembra paradigmatica dell’evoluzione che ha
subito questo business in risposta ai mutamenti del contesto.
Un primo avvicinamento della
camorra a questo settore è stato l’esercizio del cosiddetto “totonero” ovvero
la gestione parallela e clandestina del totocalcio nazionale. Il
meccanismo attuato dai clan era semplice, grazie alla presenza di tabaccai
collusi, il clan veniva a sapere in tempo reale l’identità dei soggetti
vincenti e offriva loro un pagamento immediato e in contanti della vincita, che
lo stato avrebbe pagato dopo mesi, in cambio della schedina vincente. Grazie a questo scambio tra mondo
criminale e non, le cosche immettevano sul circuito legale i soldi guadagnati
dal narcotraffico ottenendo in cambio una somma identica ma perfettamente
legale proveniente direttamente dall’Agenzia dei Monopoli di Stato. Era dunque
il riciclaggio il motivo che spinse in origine la camorra ad intraprendere
questo business: una vincita al totocalcio, il famoso “13”, poteva valere
diversi milioni di lire (5 miliardi la vincita massima registrata nella storia
del concorso) e garantiva quindi ai clan un importante canale per ripulire i
propri soldi.
Lo schema seguito dai clan
risultava sicuramente vantaggioso per gli interessi dei gruppi criminali ma
aveva anche molti limiti. Innanzitutto era necessaria la presenza di soggetti
esterni all’organizzazione disposti a collaborare: rivenditori collusi e
soggetti vincenti disposti a incassare la vincita da un canale alternativo. Un’altra criticità era legata alle vincite che, seppur milionarie, non
erano certo così frequenti ed erano soprattutto disseminate su tutto il territorio
nazionale. Attraverso questo schema i clan erano in grado ripulire i propri
soldi solo attraverso le schedine vincenti giocate presso i rivenditori
complici, potevano dunque contare su un numero esiguo di cedole e dunque su un
giro di affari certamente vantaggioso ma limitato. A partire dagli anni ’80 per
tentare di eliminare le criticità di questo sistema si registra un cambiamento
radicale nella gestione delle scommesse clandestine. Inizia così il vero e
proprio “totonero”, un concorso identico a quello ufficiale ma ad esso
parallelo e interamente nelle mani dei clan. Soggetti legati a diversi gruppi
camorristici stilavano un palinsesto con le quote per le singole partite e
raccoglievano le scommesse pagando eventuali vincite subito ed in contanti con
i proventi degli affari illeciti. I principali attori coinvolti in questo
settore erano Luigino Giuliano detto “O’ Re”, boss di Forcella, e Salvatore Lo
Russo detto “O’ Capitone”, boss di Miano. Proprio quest’ultimo si occupava
della creazione del palinsesto su cui scommettere e dell’elaborazione delle
quote su cui puntare. Era un business molto più ricco di quello precedentemente
sperimentato che, come riferito dal pentito Guglielmo Giuliano, fruttava
all’organizzazione guadagni superiori ai due miliardi di lire settimanali.
La crisi del sistema del totonero ha inizio con il decreto
174/1998 che ha aggiornato il quadro normativo in tema di scommesse. Fino a
quel momento, infatti, le uniche scommesse legali erano quelle effettuate sulle
corse dei cavalli, per tentare la fortuna nel calcio vi era solamente la
possibilità di giocare la famosa “schedina”. Con la nuova normativa, invece, si
apre un ventaglio quasi infinito di possibili giocate per ogni partita, non più
solo i risultati finali ma anche i singoli aspetti della partita: dal numero
dei calci d’angolo ai marcatori, da chi batte il calcio d’inizio a chi segna
per primo. Quella che poteva essere una battuta d’arresto per i clan si è
trasformata però in una nuova enorme opportunità. Giuseppe di Nocera, ex
esponente del clan Gallo-Cavalieri ora collaboratore di giustizia, racconta
infatti che “quando le scommesse da
illecite sono diventate legali anche i gruppi camorristici interessati e
coinvolti nel settore delle scommesse clandestine hanno colto l’opportunità di
legalizzarsi”.

La genesi della gestione clandestina delle scommesse sembra
dimostrare una incredibile capacità di adattamento da parte dei clan. Gli
interventi normativi che avrebbero dovuto arginare il problema sono stati colti
dall’organizzazione come nuove opportunità da sfruttare. La camorra si è
dimostrata in questa vicenda un passo avanti rispetto alle autorità ed ha utilizzato
a proprio favore i cambiamenti apportati proprio per contrastarla: nel calcio
come nelle altre attività, dunque, si registra una grossa capacità di trarre
vantaggio da situazioni che sembrerebbero tutt’altro che favorevoli.
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FONTI:
- Cantone Raffele - Di Feo Gianluca, Football Clan, Best BUR, Milano, 2014
- Romani Pierpaolo, Calcio criminale, Rubettino, Soveria Mannelli, 2012
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