Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio
pensiero
con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.
La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure
-Costituzione Italiana, articolo 21-
La libertà di stampa
è sotto attacco. I giornalisti, nel mondo, sono sempre più bersaglio di
campagne d’odio fomentate da politici, imprenditori ed altre personalità. Campagne
d’odio che, sempre più spesso, sfociano in vere e proprie aggressioni, verbali
ma anche fisiche, ai danni di chi racconta il presente. L’ascesa di leader
autoritari, come Jair Bolsonaro in Brasile o Donald Trump in America, e
situazioni di tensione o guerra rendono la libertà di stampa un diritto sempre
meno tutelato mettendo in pericolo la vita dei giornalisti. Una situazione
spesso creata e fagocitata dagli stessi politici.
World Press
Freedom Index – l’indice calcolato dalla organizzazione ‘Reporters without borders’
analizza ogni anno il livello di libertà di stampa in 180 paesi al
mondo. La ricerca fornisce un’istantanea della situazione della libertà dei
media basandosi su una valutazione del pluralismo, dell'indipendenza dei media,
della qualità del quadro legislativo e della sicurezza dei giornalisti in
ciascun paese. Per la realizzazione dell’indice, l’organizzazione adotta un duplice
strumento di raccolta dei dati: da una parte un questionario, tradotto in 20
lingue e distribuito ai giornalisti dei 180 paesi oggetto della ricerca; dall’altra
l’utilizzo di team di specialisti che compilino un report sugli abusi ai danni
dei reporter nelle diverse aree geografiche. Il quadro che emerge dall’analisi
per il 2019 è ben poco rassicurante però. Dal 2002, primo anno di pubblicazione
dell’indice, quella di quest’anno è la situazione più grave mai registrata a
livello mondiale. L’indicatore globale è peggiorato del 13 per cento dal 2013 e
in questo lasso di tempo il numero di paesi in cui la situazione per i
giornalisti è ritenuta buona è diminuito del 40 per cento. Al primo posto dell’indice,
come accade oramai da tre anni consecutivi vi è la Norvegia dove la costituzione,
all’articolo 100, tutela largamente i giornalisti e stabilisce che “la stampa è
libera. Nessuno può essere punito per qualsiasi scritto pubblicato o stampato,
qualunque ne sia il contenuto”. Una situazione simile si ha anche negli altri
paesi scandinavi con Finlandia e Svezia che occupano rispettivamente il secondo
e terzo posto e fanno registrare un clima disteso e sereno dove giornalisti e
media possono operare senza incorrere in rischi eccessivi. Il trend negativo
rispetto al passato è confermato dal fatto che solo il 24% dei 180 paesi è classificato
come "buono" o "abbastanza buono", rispetto al 26% dell'anno
scorso mentre il 40% dei paesi risulta essere in una situazione “difficile” o “molto
grave”.
La politica – Un ruolo centrale e determinante per
la condizione dei giornalisti è svolto dai leader politici dei diversi paesi
che con i loro attacchi possono indirizzare l’opinione pubblica e dunque creare
un clima ostile ai media. È il caso ad esempio degli Stati Uniti, passati dalla
45° alla 48° posizione. Se Thomas Jefferson, terzo presidente degli Stati
Uniti, sosteneva che sarebbe stato meglio “vivere in un paese che ha dei
giornali e nessun governo piuttosto che in un paese che ha un governo e nessun
giornale”, lo stesso non si può
dire 230 anni dopo di Donald Trump. Il Presidente americano, a un anno dalla
fine del suo mandato, non ha mai smesso di attaccare i giornalisti definendoli “nemici
del popolo americano” e, nella sua prima uscita da presidente, “le persone più
disoneste della terra”. Nel mirino di Trump in questi anni sono finiti tutti i
principali quotidiani e broadcast del paese, dal New York Times alla Nbc, accusandoli
di “fabbricare fake news” per polarizzare il dibattito politico. Se i
giornalisti rifiutano di farsi imbavagliare e continuano a raccontare le loro verità
l’opinione pubblica si divide tra chi sostiene il loro operato e gli elettori
di Trump che seguono il leader repubblicano nei suoi attacchi. Sono proprio
questi ultimi a rappresentare una criticità nel panorama americano attraverso
attacchi ai giornalisti e il rifiuto di credere a ciò che dicono e scrivono cavalcando
le dichiarazioni secondo cui sarebbero produttori di false informazioni. Ma la
situazione è peggiore in altri paesi. Nelle filippine il presidente Duterte subito
dopo la sua elezione, avvenuta nel 2016, aveva dichiarato che “non è
perché siete giornalisti che siete esentati dall'essere assassinati, se siete
dei figli di puttana”. Una legittimazione della violenza nei confronti dei
media estremamente preoccupante, tanto più in un paese che dal 1992 ad oggi ha
visto quasi 80 reporter uccisi. Una situazione sempre più difficile si registra
anche in America Latina dove le elezioni in Messico (144°), Brasile (105°),
Venezuela (148°), Paraguay (99°), Colombia (129°), El Salvador (81°) e Cuba (169°)
hanno portato ad un aumento degli attacchi ai media e un conseguente
abbassamento complessivo dell’indice per la regione. Una situazione di
insicurezza che porta spesso i giornalisti dell’area a forme di autocensura con
pesanti ricadute per la qualità dell’informazione. Le critiche e le pressioni
politiche sui giornalisti contribuiscono dunque a creare un clima di tensione e
di insicurezza per i reporter alimentando malumori che spesso si trasformano in
violenti attacchi.
Pericoli
– Minacce, insulti e attacchi fanno ormai parte dei rischi del mestiere di cui
deve tener conto un giornalista. Un clima d’odio testimoniato dai numeri: 30 i
giornalisti uccisi dall’inizio del 2019 ad oggi. Un vero e proprio bollettino
di guerra che vede in testa alla macabra classifica il Messico che con 10
giornalisti uccisi quest’anno si conferma il paese in cui chi fa questo
mestiere rischia maggiormente la vita. Da Rafael Murua Manríquez, ucciso il 10
gennaio scorso, fino a Nevith Condés Jaramillo, vittima di un agguato il 24
agosto, dieci vittime che rendono il Messico un paese in cui la libertà di
stampa rischia di scomparire. Problema principale dello stato centroamericano è
la presenza massiccia e pericolosa dei narcos e di un sistema corruttivo esteso
che porta a pesanti commistioni tra mondo politico-imprenditoriale e mondo
criminale. Un quadro complesso e pericoloso che provoca più morti tra i
reporter di zone di guerra come Siria (1 morto nel 2019) e Afghanistan (3
morti) e rende vulnerabile l’intera categoria. Violenze e omicidi contribuiscono
a generare un clima di paura tra i giornalisti che hanno reagito con il
silenzio e l’autocensura creando così zone di silenzio che garantiscono un cono
d’ombra mediatico sul sistema criminale-corruttivo.
Arresti
– A zittire i giornalisti, spesso, ci pensa lo stesso stato. Censure e
arresti sono diventate strumenti sempre più utilizzati dai regimi per fermare
giornalisti reputati scomodi. Secondo i dati di Reporters Without Borders nel
2019 sono 237 i giornalisti imprigionati di cui 70 nella sola Cina di Xi
Jinping. Una situazione difficile anche in Egitto dove 27 giornalisti si
trovano agli arresti, 5 fermati solo a settembre, con l’accusa di aver
documentato manifestazioni anti-regime o aver condotto inchieste sul presidente Abdel
Fattah al-Sisi. Una stretta sull’informazione confermata dal blocco di diversi social
e siti di informazione stranieri durante le proteste iniziate il 16 settembre
per chiedere le dimissioni di al-Sisi. Una situazione non troppo diversa da
quella turca dove sono 28 i reporter in carcere, tutti arrestati negli ultimi
due anni dopo la stretta di Erdogan sull’informazione a seguito del fallito
golpe del 15 luglio 2016 che portò all’arresto di massa di diversi oppositori
politici tra cui 20 giornalisti.
Italia – Nel nostro paese, invece, la
situazione sembra segnare una tendenza parzialmente positiva. Nell’indice
stilato da Reporters Without Borders, l’Italia ha guadagnato 3 posizioni
e risulta essere al 43° posto per libertà di stampa. Un risultato importante ma
che disegna un quadro costellato da diverse difficoltà. Primo profilo critico
sottolineato dall’organizzazione è la presenza di minacce da parte di diverse
organizzazioni criminali. Mafia e gruppi estremisti rappresentano infatti un
pericolo reale e tangibile per l’intera categoria tanto che si evidenzia come “il
livello di violenza contro i giornalisti è allarmante e continua a crescere,
soprattutto in Campania, Calabria, Puglia e Sicilia, nonché a Roma e nella
regione circostante”. I giornalisti, però, non si lasciano quasi mai spaventare
da intimidazioni e minacce e portano avanti con coraggio e determinazione le
loro inchieste garantendo così una qualità dell’informazione elevata e un
effettivo dibattito democratico. Determinazione e coraggio dati, senza dubbio,
anche dalla presenza di agenti di scorta che proteggono e tutelano circa una
ventina di giornalisti permettendogli di svolgere più serenamente il loro
lavoro. Ma proprio le scorte rischiano di diventare un pericolo per la qualità
dell’informazione, non certo per il loro lavoro, ma per la presenza di politici
che “minacciano il ritiro della protezione a seguito di notizie o opinioni
espresse”. Un profilo che sarebbe già di per sé problematico ma lo diventa ancor
di più nel caso in cui a lanciare certe minacce sia un Ministro dell’Interno
nell’esercizio delle sue funzioni, come recentemente accaduto.
In
un mondo in cui la libertà di stampa è sempre più minacciata c’è anche chi va
controcorrente. L’Etiopia, dopo che per anni si è ritrovata in fondo a questa
classifica, ha avuto un miglioramento di ben 40 posizioni e si trova al 110°
posto. Dall’elezione di Abiy Ahmed Ali si è assistito ad un’inversione di
tendenza significativa: è stato ripristinato l’accesso ai siti di informazione
stranieri, tutti i reporter detenuti sono stati rilasciati ed è stata istituita
una commissione indipendente per revisionare una legge del 2009 sul terrorismo
spesso utilizzata per colpire i media. Una nuova era per l’Etiopia promossa e
difesa del suo primo ministro che, non a caso, quest’anno ha ricevuto il Nobel
per la pace. Il mondo, questa volta, dovrebbe guardare all’Africa. Non per commuoversi
o aiutarla ma per prendere nota ed imparare. Perché l’esempio dell’Etiopia
possa contagiare tutti e possa rendere, finalmente, la libertà di stampa un
diritto granitico e garantito a tutti. Perché una stampa indipendente è il
presupposto inalienabile per una società più libera e democratica.
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