“Il giorno
tropicale era un sudario
Davanti ai grattaceli era un sipario
Campa decentemente e intanto spera
Di essere prossimamente milionario”
Davanti ai grattaceli era un sipario
Campa decentemente e intanto spera
Di essere prossimamente milionario”
- Enzo Jannacci -
Cile, Equador, Bolivia, Venezuela
e non solo. L’America Latina è scossa da proteste sempre più violente che
rendono ancor più instabile una situazione già drammaticamente difficile
mettendo in luce le fragilità di un continente spesso abbandonato a sé stesso.
Manifestazioni, incendi e rivolte divampano per le strade delle principali
città sudamericane contro una politica neoliberista che sta mostrando al mondo
tutti i suoi limiti.

Il paese, ora, è sull’orlo del
baratro con un’inflazione record e un sistema di welfare al collasso. Secondo ‘Medici
senza frontiere’ ospedali e cliniche hanno personale inadeguato e forniture
mediche insufficienti, problemi gravi anche nel settore scolastico con diversi
professori costretti a fuggire dalla repressione del governo, stipendi inesistenti
e strutture inadeguate. Si stima che il 94% della popolazione venezuelana, pari
a circa 30 milioni di persone, viva in uno stato di insicurezza alimentare,
mentre l’82% non ha accesso a fonti di acqua sicure. Le condizioni di salute
hanno raggiunto livelli drammatici: il tasso di mortalità materna sfiora il
65%, per la mancanza di strutture sanitarie e pratiche igieniche adeguate. Una
situazione che sta spingendo i venezuelani ad un esodo di massa. 4,5 milioni di
Venezuelani, il 12% della popolazione totale, ha lasciato il paese per
rifugiarsi negli stati vicini dando vita al più grande fenomeno migratorio
nella storia dell’America Latina e sta mettendo il sistema di accoglienza di
diversi paesi, Colombia in primis.
Bolivia – Brogli
elettorali e contestazioni. Il 20 ottobre la Bolivia è scesa in piazza per
contestare la vittoria alle elezioni del presidente uscente Evo Morales. Dato
dai primi exit poll in vantaggio con uno scarto minimo rispetto allo sfidante Carlos
Mesa, Morales è stato proclamato vincitore in serata con un vantaggio di oltre
10 punti percentuali. Un cambio improvviso nello scrutinio che ha lasciato perplessi
i boliviani e l’opposizione che si è mobilitata per contestare il risultato
gridando ai brogli elettorali. Anche gli Stati Uniti, il Brasile e l’Argentina hanno
espresso preoccupazione per il drastico cambio dei risultati. Michael Kozak,
assistente segretario del dipartimento di Stato americano per gli affari
dell’emisfero occidentale, ha definito l’interruzione nel conteggio dei voti
del Tribunale Supremo Elettorale un «tentativo di sovvertire la democrazia
boliviana», invitando l’organo a «ripristinare la credibilità del processo
elettorale». Milioni di boliviani sono scesi in piazza e le proteste
continuano tutt’ora nonostante i tentativi di reprimerle abbiano già provocato
due morti e diversi feriti.
Morales, al momento della sua prima
elezione nel 2006, era visto come un leader in grado di rilanciare l’economia e
la vita in Bolivia. Ex coltivatore di coca e sindacalista è stato il primo
boliviano di origine indigena ad essere eletto alla presidenza del paese
lasciando immaginare un importante impegno a sostegno delle popolazioni indios.
Quel sostegno, se non a parole, è mancato quasi totalmente e la sua politica ha
fatto crescere il malcontento in tutto il paese. Se da un lato ha fatto
ripartire l’economia boliviana abbassando il tasso di povertà, dall’altro ha
commesso gravi errori attirando su di se critiche da ogni schieramento. Un
primo momento di crisi lo si è avuto nel 2011 quando un movimento di protesta
nato dalle comunità indigene fu represso nel sangue dalla polizia schierata in
assetto antisommossa. Gli indios erano scesi in piazza per mostrare la loro
contrarietà alla realizzazione dell’autostrada Cochabamba-San Ignacio de
Moxos che, secondo i piani di Morales, avrebbe dovuto attraversare il Parco
nazionale Isiboro terra abitata dagli indigeni. Proprio quelle comunità Indios
che con la sua elezione aveva promesso di tutelare erano dunque le prime
minacciate dall’opera e la repressione del movimento di protesta aveva
scatenato la rabbia e l’indignazione di tutta la Bolivia. Ma la goccia che ha
fatto traboccare il vaso è stato il referendum del 2016 indetto da Morales per
eliminare il vincolo dei due mandati e potersi candidare per una terza volta. Il
risultato elettorale, che aveva sconfitto il presidente bocciando il quesito,
era stato annullato dalla Corte Suprema aprendo di fatto la strada alla
modifica costituzionale sognata dal presidente. La Bolivia, con l’inizio del
terzo mandato di Morales, sembra scivolare verso un autoritarismo di stampo
socialista confermata dai risultati ancora dubbi delle elezioni di una
settimana fa. I boliviani, però, iniziano a malsopportare l’attaccamento ormai
morboso al potere del leader indios che sembra aver tradito la fiducia del
popolo.

Ma se, visto da fuori, non
sembra essere un paese problematico la realtà è ben diversa. “La Svizzera del
sudamerica” come viene spesso chiamato il paese è l’unico paese del continente
ad essere membro dell’OCSE (dal 2010) e presenta un quadro finanziario che
sembra dipingere un paese benestante: Pil pro capite prossimo ai 25mila
dollari, inflazione molto bassa, rispetto agli standard regionali e un debito
pubblico che vale meno di un quarto del prodotto interno lordo. Ma quella che
sembra essere una situazione rosea nasconde gravi disuguaglianze. Secondo le
ultime rilevazioni della Comisión Económica para América Latina y el Caribe (Cepal),
la ricchezza media delle famiglie cilene è di circa 115 mila dollari. Cifre importanti
che non tengono conto però della sua suddivisione: solo il 11% delle famiglie
cilene (550 nuclei familiari circa) ne beneficia realmente con una ricchezza
media di 760 mila dollari, mentre per la metà più povera dei cittadini il dato
si ferma a quota 5mila dollari. Un Cile che, sebbene i dati lo facciano
sembrare un paese benestante, è pervaso da problemi strutturali che richiedono
un intervento profondo del governo. Intervento che, per ora, è stato solo
armato e volto a reprimere un malcontento generale ormai esploso.
Altro – In Argentina, la vittoria di Alberto
Fernandez alle elezioni dello scorso weekend potrebbe aprire la strada ad un
cambio di rotta. Le politiche di austerità del precedente governo, guidato dall’ex
presidente del Boca Juniors Mauricio Macri, avevano causato il ristagno della
produzione elettorale portando il paese alla recessione del 2018 che aveva costretto
il governo a chiedere il più grande intervento nella storia del Fondo Monetario
Internazionale: 58 miliardi di dollari. In Argentina, dunque, tutto sembra
essersi risolto all’interno di un contesto elettorale ma la situazione rimane
tesa e potrebbe esplodere da un momento all’altro se Fernandez non riuscisse a
dimostrare la sua capacità di cambiare rotta.
Se in argentina è ancora latente, il malcontento ha
iniziato a manifestarsi con forza in Brasile. Migliaia di persone manifestano
da agosto contro le politiche del presidente Jair Bolsonaro ed in particolare
contro i tagli all’istruzione e le misure di bilancio approvate dal suo
governo. Già al centro di durissime critiche durante tutta l’estate per la sua
gestione dei terreni dell’Amazzonia, il presidente è sempre meno popolare e le
sue politiche unite al suo coinvolgimento nell’omicidio dell’attivista Marielle
Franco potrebbero essere la scintilla che accende la miccia del malcontento brasiliano.
L’America Latina è una polveriera che potrebbe esplodere
da un momento all’altro, dove non è già successo. Una situazione caotica e
imprevedibile che sta rendendo la regione instabile politicamente ed
economicamente e sta portando ad una presenza sempre maggiori di figure
militari al fianco di quelle politiche. Se non è un pericolo per la democrazia,
è sicuramente un segnale di come gli eserciti abbiano mantenuto enorme
influenza culturale, autonomia e potere anche dopo la fine delle dittature, e
che ancora oggi siano un punto di riferimento importante per le istituzioni
civili deboli e in difficoltà. In un’America Latina martoriata e sempre più in
difficoltà, dunque, si profila uno scontro sempre più duro tra i popoli e i
loro governi. Con l’esercito che resta a guardare e la comunità internazionale che
attende, magari cantando una canzone.
“Ahi Sudamerica, Sudamerica, Sudamerica
E i ballerini aspettan su una gamba
L'ultima carità di un'altra rumba”
E i ballerini aspettan su una gamba
L'ultima carità di un'altra rumba”
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