“Then conquer
we must, when our cause it is just,
And this be our motto: "In God is our trust."
And the star-spangled banner in triumph shall wave
O'er the land of the free and the home of the brave!”
And this be our motto: "In God is our trust."
And the star-spangled banner in triumph shall wave
O'er the land of the free and the home of the brave!”
“È un assalto al partito Repubblicano!”. Ma l’attacco,
più che al partito, sembra proprio indirizzato a lui. Donald Trump, da
mercoledì, è ufficialmente in stato di accusa dopo che la camera ha approvato
con 230 voti contro 197 la mozione per aprire la procedura di impeachment nei
confronti del presidente. Trump sarà così il terzo presidente americano ad
essere giudicato dal senato dopo Johnson e Clinton rispettivamente nel 1868 e
nel 1998.
Impeachment – L’impeachment, o messa in stato di
accusa, è una procedura prevista dalla Costituzione degli Stati Uniti per destituire
i funzionari governativi che sono accusati di “tradimento, corruzione, altri
crimini gravi e illeciti”. Non solo il presidente, dunque, ma anche il
vicepresidente, i funzionari amministrativi e i giudici federali possono essere
messi in stato di accusa. Nei circa 240 anni di storia degli Stati Uniti la
procedura di impeachment è stata aperta 19 volte: 15 volte contro giudici
federali, una volta contro un segretario di gabinetto, una volta contro un
senatore e due volte contro un presidente.
La procedura per la messa in stato di accusa inizia alla Camera
dei Rappresentanti su proposta di un membro della stessa presentando un elenco
delle accuse sotto giuramento. Proprio la Camera dei Rappresentanti ricopre un
ruolo chiave dunque nella procedura per l’impeachment ed è riconosciuta dalla Costituzione
(Articolo I, Sezione 2, Clausola 5) come unica titolare del diritto di avviare
tale procedura. Una volta mosse le accuse formali nei confronti del funzionario,
la risoluzione deve essere votata dalla maggioranza semplice (50%+1). Se la
mozione viene approvata il funzionario in questione è ufficialmente in stato di
accusa ed il procedimento passa al senato dove si svolge un vero e proprio processo
con ciascuna delle parti che ha il diritto di chiamare testimoni ed
eseguire esami incrociati. I senatori, dopo aver prestato giuramento per
garantire un approccio onesto e diligente al caso, ascoltano le accuse e le
motivazioni della difesa per poi votare in privato le incriminazioni. Se i 2/3
dei senatori votano a favore della condanna, il funzionario in stato di accusa
decade immediatamente dal proprio incarico senza possibilità di ricorrere né di
chiedere la grazia presidenziale.
Precedenti – La prima volta che un presidente
statunitense venne messo in stato di accusa era il 24 febbraio 1868. Protagonista
della vicenda fu il democratico Andrew Johnson, che subentrò a Lincoln dopo il
suo omicidio diventando il diciassettesimo presidente degli Stati Uniti. Nei
primi anni della sua presidenza cercò di favorire un rapido ristabilimento
degli Stati secessionisti in seno all'Unione a seguito della guerra civile
appena conclusasi. Ma il suo percorso di ricostruzione trovò un ostacolo nel Segretario
alla Guerra Edwin Stanton che tentò di ostacolare la politica presidenziale
volta a favorire quanto più possibile la crescita degli stati del sud rispetto
a quelli del nord. Fu proprio la figura di Stanton ad essere al centro dello
scandalo che coinvolse il presidente. Il 5 agosto 1967, mentre i lavori del Senato
erano in pausa, Johnson chiese formalmente le dimissioni del Segretario alla
Guerra e, dopo il suo rifiuto, lo sospese in via temporanea in attesa di una
nuova riunione del Senato. Riunitosi nuovamente il 4 gennaio 1968, il Congresso
a maggioranza repubblicana disapprovò la decisione del Presidente e con 35 voti
contro 16 rifiutò di ratificare la sospensione di Stanton. La decisione di Johnson
di forzare ulteriormente la mano nominando, nonostante il voto sfavorevole,
Thomas come nuovo Segretario alla Guerra scatenò la reazione del congresso che
si appellò al “Tenure of Office Act”. La legge, approvata l’anno prima dal
parlamento, limitava nettamente i poteri del presidente prevedendo espressamente
il divieto di rimuovere dall’incarico i titolari di uffici federali durante la
pausa dei lavori congressuali senza consultarlo. Accusato di abuso di potere
per aver intenzionalmente violato la legge, Johnson fu incriminato dalla camera
che con 128 voti contro 47 aprì ufficialmente la procedura per l’impeachment. Ma
il processo, iniziato il 6 marzo e durato 3 mesi, si concluse con un risultato
imprevedibile: il senatore repubblicano del Kansas Edmund G. Ross decise
di non seguire la linea del suo partito e votò contro la condanna. Grazie alla
sua defezione, infatti, non si raggiunse per un solo voto la maggioranza dei
2/3 necessaria per destituire il presidente e Johnson rimase in carica fino
alla fine del suo mandato.
130 dopo Johnson alla sbarra finì il 42° presidente degli
Stati Uniti: Bill Clinton. Eletto per il secondo mandato presidenziale nel
1997, il 19 dicembre 1998 venne messo in stato d’accusa dalla Camera dei
Rappresentanti che lo incriminò per spergiuro e ostruzione alla giustizia. Le accuse,
mosse dal Procuratore indipendente Ken Starr e
presentate al congresso dal Comitato Giudiziario della Camera, riguardavano in
particolare la sua relazione extraconiugale con Monica Lewinski, stagista
22enne della Casa Bianca. Lo scandalo, conosciuto come “Sexgate”, travolse l’amministrazione
Clinton ed ebbe una portata mondiale ma si concluse nuovamente con un nulla di
fatto. Nel processo iniziato il 22 gennaio 1999 Clinton era rappresentato dallo
studio legale Williams & Connolly di Washington i cui legali, per
21 giorni, difesero il presidente smontando udienza dopo udienza le accuse dei
senatori. Il 12 febbraio dello stesso anno il senato fu chiamato a votare
definitivamente per la rimozione del presidente: su 67 voti necessari, solo 50
votarono per la condanna per il reato di ostruzione della giustizia, mentre per
il reato di falsa testimonianza solo 45 per la condanna.
Ma se Johnson e Clinton sono gli unici due presidenti a
essere stati messi ufficialmente sotto accusa, c’è un terzo caso di “quasi
impeachment”. Nel 1974 era infatti toccato al presidente Repubblicano Nixon
affrontare le accuse del Parlamento e dell’opinione pubblica per il cosiddetto
scandalo del “Watergate”. Il caso, risalente al 1972, riguardava i fatti
accaduti nel Watergate Complex, sede del Comitato elettorale del Partito Democratico.
Il 17 giugno 1972
5 uomini, Bernard Barker, Virgilio González, Eugenio Martínez, James W. McCord
Jr. e Frank Sturgis, furono arrestati per essersi intrufolati negli uffici ma
le indagini successive rivelarono complicità ed interessi inimmaginabili.
Quello che inizialmente venne definito dall’addetto stampa di Nixon come un “furto
di terz'ordine” si rivelò uno dei più importanti casi di spionaggio nella
storia delle elezioni americane. Dalle indagini emersero infatti collegamenti con
varie sfere del Partito Repubblicano, fino ad arrivare alla Casa Bianca, ed il
tentativo da parte di alti funzionari di insabbiare il caso. Con una nuova
campagna elettorale all’orizzonte, Nixon avrebbe infatti ordito un piano per
spiare ed indebolire l’opposizione politica per avvantaggiarsi nella competizione
elettorale. L’8 agosto 1974, davanti al Congresso riunitosi per votare la messa
in stato di accusa, Nixon pronunciò il discorso che ne sancì le dimissioni sottraendosi
così al procedimento di impeachment.
Trump – Per Donald Trump, invece, la procedura si
è già aperta. Il voto della camera ha ufficialmente messo in stato di accusa il
Presidente avviando così per la terza volta nella storia il procedimento contro
la massima autorità politica statunitense. Secondo l’accusa, Trump avrebbe
esercitato pressioni nei confronti del presidente ucraino Volodymyr Zelensky
affinché la magistratura di Kiev riaprisse un’indagine per corruzione a carico
del figlio di Joe Biden, il candidato democratico favorito per sfidare il tycoon
alle presidenziali del 2020. Per sollecitare una nuova inchiesta, Trump avrebbe
persino minacciato Zelensky di bloccare un pacchetto di aiuti di 400 milioni di
dollari stanziati per il paese europeo. “Si parla tanto del figlio di Biden, e
di Biden che ha bloccato l’inchiesta” avrebbe detto il presidente statunitense
in una telefonata al collega ucraino “siamo in tanti a volerne sapere di più,
perciò tutto quello che Lei potrà fare con il procuratore generale sarà molto
apprezzato. Biden se ne andava in giro a vantarsi di aver bloccato l’inchiesta,
perciò se Lei può darci un’occhiata…”. Una telefonata, datata 25 luglio e
rivelata da un informatore anonimo, a cui avrebbero fatto seguito le pressioni
sull’ambasciatore americano presso l’Unione europea, Gordon Sondland, affinché
seguisse la vicenda e verificasse che fosse dato seguito alle richieste.
La linea difensiva del presidente si baserà molto
probabilmente sulle tesi sostenute in questi mesi davanti all’opinione
pubblica. Secondo i Repubblicani, infatti, Trump si sarebbe interessato al caso
perché preoccupato per la crescente corruzione in Ucraina e la sua decisione di
fornire fondi solo in caso di processo non aveva alcuna finalità politica
contro Biden ma si sarebbe trattata di una garanzia per il corretto utilizzo
dei 400 milioni. Una tesi che, evidentemente non ha mai convinto i Democratici
che lo hanno formalmente messo sotto accusa con 230 voti contro 197. L’incognita
ora riguarda però i tempi del processo. La speaker della Camera, la democratica
Nancy Pelosi, al termine del voto ha infatti affermato che aspetterà a
inviare gli atti dell’impeachment al Senato finché non ci saranno garanzie “per
un processo giusto”. Un gesto che appare come una chiara risposta al Senatore Mitch McConnell,
che coordinerà il processo di impeachment da qui in poi, il quale qualche
settimana fa aveva rilasciato una dichiarazione sconcertante e pericolosa per
il proseguo del processo. “Io non sarò imparziale per niente, lavorerò in
completo coordinamento con la Casa Bianca” aveva affermato McConnel rifiutando
la richiesta dei Democritici di interrogare i funzionari che si sono rifiutati
di testimoniare durante l’inchiesta alla camera, come l’ex consigliere alla
sicurezza nazionale John Bolton e Mick Mulvaney, il capo dello staff del
presidente. Il processo dovrebbe con ogni probabilità iniziare a gennaio e,
stando ai numeri, potrebbe concludersi con un nulla di fatto. I senatori dovrebbero
infatti votare secondo le linee dettate dal partito di appartenenza e la
maggioranza Repubblicana in Senato (53 seggi contro 47) dovrebbe garantire a
Trump l’assoluzione.
Ora non resta che aspettare dunque ma il processo al
senato potrebbe consegnare a Trump una vittoria politica importante in vista
delle elezioni del prossimo anno. Con il Partito Democratico nel pieno del
dibattito per le primarie di inizio anno, l’assoluzione del presidente repubblicano
rischia di essere una sconfitta bruciante per i democratici in un momento in
cui tutte le loro divisioni saranno alla luce del sole. Mentre per Trump sembra
essere una manna dal cielo. Un’opportunità servitagli su un piatto d’argento
dai sui stessi avversari per compattare la sua base elettorale contro i
democratici verso le Presidenziali del 2020.
Commenti
Posta un commento