“Vorrei solo
poter vivere la mia vita senza dovermi svegliare
pensando a quali
complotti stia tramando il Partito Laburista.
La gente è
stanca, con le loro squallide decisioni hanno creato un clima terribile.
C’è solo la
sensazione che nulla vada per il verso giusto.
Non sono libera
di dire altro per il momento.
Se lo fossi, vi
assicuro che lo farei”
-Daphne Caruana
Galizia, 22 febbraio 2016-
Malta, La Valletta, 2 dicembre
2019. Decine di migliaia di manifestanti assediano il parlamento e bloccano le
uscite costringendo i deputati e il premier Joseph Muscat a barricarsi all’interno.
Per oltre due ore i maltesi tengono in ostaggio i propri governanti impedendogli
di uscire. È la rabbia di un popolo stanco di corruzione e criminalità politica.
Un popolo che da tempo sa quello che sta emergendo solo in questi giorni. Ci
son voluti due anni per svelare le complicità indicibili che hanno portato alla
morte della giornalista Daphne Caruana Galizia. Ma ora, due anni dopo l’autobomba
che le tolse per sempre la voce, il vaso di pandora è stato scoperchiato e il
governo trema sotto i colpi dei giudici e dei propri cittadini.

La verità l’ha detta anche
negli ultimi anni. A partire dal 2016, Daphne si è occupata infatti dei
cosiddetti “Malta Files” un filone dei più famosi “Panama Papers”, le
informazioni riservate su 214.000 società offshore fatte trapelare dallo studio
legale ‘Mossack Fonseca’. Con le sue inchieste stava mettendo sotto accusa l’intero
sistema politico maltese. Già dal febbraio 2016 aveva denunciato il
coinvolgimento di due esponenti di spicco del governo presieduto dal premier
Joseph Muscat: il ministro del turismo Konrad Mizzi e il capo di Gabinetto
Keith Schembri. I due, secondo le inchieste della giornalista, avevano aperto società
offshore a Panama attraverso dei trust neozelandesi creati appositamente per
agire indisturbati nel paradiso fiscale del centroamerica. Le sue inchieste,
sempre più solide e dettagliate, la portarono al termine di quell’anno ad
essere inserita dal quotidiano americano ‘Politico’ tra le 28 persone che
avrebbero scosso l’Europa l’anno successivo. E così fu. Nell’aprile del 2017 emerse
infatti dalle sue indagini un nome ancora più pesante: Joseph Muscat. Secondo le
fonti in possesso della giornalista la moglie del primo ministro maltese
sarebbe risultata titolare di un’altra società offshore con sede a Panama attraverso
cui, lei e il marito, avrebbero ricevuto fondi da diverse personalità tra cui
quasi un milione di dollari dalla figlia del presidente dell’Azerbaijan. Se non
scosse l’Europa, sicuramente scosse Malta provocando un terremoto politico che
portò alle dimissioni di Muscat e ad elezioni anticipate, vinte nuovamente dal
Leader Laburista.
Ma a un certo punto dalle
indagini di Daphne emerse un nome che, per lungo tempo, rimarrà avvolto nel
mistero. Si tratta della società ‘17Black’ con sede a Dubai e riconducibile
ancora una volta a Mizzi e Schembri. La connessione tra i politici e la società
è evidente, Daphne lo sa. Ma fino al giorno della sua morte non riuscirà a
trovare prove decisive per dimostrarlo, come non riuscirà a trovare nulla né sulle
finalità né sul cosiddetto "ultimate beneficial owner", il
beneficiario finale, il proprietario dei capitali depositati e movimentati. La “17Black”
rimarrà un’entità oscura, un mistero che Daphne non riuscì mai a svelare.

Le indagini – Le
indagini sulla morte della giornalista, infatti, sono andate avanti a rilento.
Se gli esecutori materiali del delitto, i fratelli George e Alfred Degiorgio e
il loro amico Vincent Muscat (omonimo del presidente ma senza legami di
parentela), erano stati arrestati già nei mesi successivi sull’identità dei
mandanti nulla si è mosso per diverso tempo. Le implicazioni politiche hanno
infatti rappresentato un enorme problema rallentando le indagini. Se da un lato
Mizzi e Schembri si dicevano pubblicamente pronti a collaborare per dimostrare
la loro innocenza, dall’altro hanno cercato di ostacolare gli inquirenti in ogni
modo attraverso cavilli procedurali. Sulla vicenda si era espresso anche il Consiglio
d’Europa che aveva criticato duramente le autorità di Malta per non essere
riuscite a garantire indagini indipendenti ed efficaci sul caso, e per chiedere
al governo di aprire un’indagine per trovare il mandante. Dopo due anni di indagini
a vuoto e con le pressioni sempre crescenti da parte sia della popolazione
locale sia della comunità internazionale il primo ministro Muscat ha dovuto
cedere affidando l’indagine, nel settembre di quest’anno, al giudice Michael
Malla. Da quel momento è arrivata una svolta inattesa e, per certi versi,
insperata.

Il castello di carta sta
iniziando a crollare. Il governo è sotto accusa e la popolazione da alcune settimane
scende in piazza praticamente ogni giorno. Stanca della corruzione e del marcio
della politica, la cittadinanza ha iniziato una dura contestazione contro i
propri governanti chiedendo le dimissioni del Primo Ministro Muscat che avrebbe,
secondo i manifestanti, “le mani sporche di sangue”. Dopo anni di silenzi,
complicità e depistaggi il vaso di pandora è stato scoperchiato ed ora trema
tutta la politica maltese. Mentre Muscat prende tempo, annunciando che si
dimetterà il 12 gennaio, la rabbia esplode in tutta l’isola. Shock, disgusto e
assenza di fiducia alimentano la paura di un popolo che ora teme il proprio
governo. Perché come scrive il “Times of Malta” in un editoriale di qualche
giorno fa:
“È qualcosa che
va fermato.
Non si tratta
più dei legami tra politica e imprenditori, si tratta di legami tra politica e
criminali.
Le proteste
devono continuare.”
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