“Nessuna
esitazione, amici, la mia aspirazione rimane alta,
non tirerò giù
le maniche che mi sono rimboccato per la lotta.
Il coraggioso
giardiniere non lascerà appassire il suo giardino prima del tempo,
Né trascurerà
la sua cura facendo morire il nostro fiore.”
-Lutpulla Mutellip-
“Ciao ragazzi. Ora vi insegno
come allungare le vostre ciglia. La prima cosa è mettere le ciglia nel
piegaciglia. Poi lo mettete giù e usate il vostro telefono, proprio quello che
state usando ora, e cercate di capire cosa sta succedendo in Cina nei campi di
concentramento dei musulmani”. Inizia così il video pubblicato da Feroza Aziz
su Tik Tok per denunciare le violenze sugli Uiguri nella regione cinese dello
Xinjiang. Fingendo, a inizio e fine video, un tutorial di make-up la 17enne
americana ha eluso la censura dell’app cinese ed ha spiegato ai suoi follower
come nel paese asiatico si stia consumando “un nuovo olocausto”. Un video
diventato presto virale e ricondiviso milioni di volte su tutti i social cha ha
acceso un riflettore importante su un fenomeno spesso taciuto. Mentre Pechino
prova a mascherarli come “campi di addestramento volontario” appare sempre più
chiaro agli occhi della comunità internazionale come nello Xinjiang sia in atto
un tentativo di rieducazione forzata della minoranza uigura di tradizione musulmana.
Gli Uiguri – Gli Uiguri
sono una minoranza etnica turcofona di religione islamica che abitano
prevalentemente la regione dello Xinjiang nell’ovest della Cina. Se nella regione
si registra la presenza di circa 8,5 milioni di uiguri (46% della popolazione
totale della regione), l’etnia è diffusa in maniera minore anche in Kazakistan,
Kirghizistan, Turchia ed Unione Europea dove, secondo un censimento del 2014, vivrebbero
circa 50 mila soggetti legati alla tradizione uigura. Si tratta di un’etnia
antica la cui presenza nell’area risalirebbe addirittura al II secolo a.C. si
oppose all’espansione dell’impero Han nella zona. Nel 1760, sotto la dinastia
Quing, la regione dello Xinjang venne annessa ufficialmente ai territori dell’impero
cinese che iniziò ad amministrarla in ottica centralista rifiutando sin da
subito le richieste di autonomia dell’etnia islamica. La loro integrazione
nella realtà cinese è sempre stata lenta e difficile essendo molto legati alla
loro religione e alla loro cultura tradizionale, gli Uiguri si sentono infatti
più vicini alle popolazioni dell’Asia centrale che ai loro
connazionali Han, l’altra minoranza islamica fortemente legata alla Cina. Ben
presto iniziarono dunque le pretese di autonomia e le aspirazioni separatiste
sempre represse dalle autorità cinesi.
Aspirazioni che si sono
concretizzate, per breve tempo, in due occasioni: nel 1933 e nel 1944. In
quegli anni, infatti, gli Uiguri diedero vita ad un duplice tentativo di
fondare la tanto sognata “Repubblica del Turkestan orientale”. Se il primo
tentativo fu di breve durata e si concluse dopo qualche mese con la repressione
cinese, il secondo tentativo fu più durevole. Nel 1940, visto il legame forte
tra i due popoli, gli Uiguri ottennero dall’Unione Sovietica assistenza nel
creare il “Comitato per la liberazione del popolo turco” che avrebbe dovuto
coordinare una ribellione nello Xinjiang per l’indipendenza dalla Cina che
iniziò nel novembre del 1944. Le truppe uigure combatterono contro quelle
cinesi per diverse settimane assaltando ed occupando la città di Kulja fino al
15 novembre quando venne dichiarata ufficialmente la nascita della “Repubblica
del Turkestan orientale”. Nata sotto la protezione sovietica, la repubblica
dovette ben presto rinunciare al potente alleato che nell’agosto del 1945 siglò
con la Cina un patto di amicizia ed alleanza che di fatto negò il supporto agli
uiguri. Nella regione venne istituito un governo di coalizione con
rappresentanti del governo cinese, della minoranza uigura e di quella han. Rimasta
ormai solo sulla carta, la Repubblica del Turkestan venne ricondotta sotto il
controllo cinese nel settembre del 1949 con la guerra civile che diede un forte
impulso centralista rifiutando forme di autonomia come quella sognata dagli Uiguri.
La storia – La questione
uigura è tornata di strettissima attualità nel 2009. Tra il 25 e il 26
giugno di quell’anno due uiguri furono uccisi dalle forze dell’ordine durante
scontri scoppiati a Shaoguan tra la minoranza turcofona e gli Han. Scesi in
piazza pochi giorni dopo nella città di Ürümqi, capoluogo dello Xinjiang,
gli uiguri si fronteggiarono per giorni con la polizia e gli han dando vita alla
“Rivolta del luglio 2009”. Secondo le fonti ufficiali cinesi il bilancio finale
sarebbe stato di 197 persone morte, 1721 ferite e di diversi veicoli ed edifici
distrutti. Un bilancio che sembra essere solamente parziale e che è sempre
stato contestato da associazioni per i diritti umani come “Human Rights Watch” che ha sempre denunciato
le violenze subite dagli Uiguri in quei giorni documentando almeno 73 casi di
persone scomparse nei rastrellamenti della polizia. La regione, da quel
momento, è diventata una delle aree più sorvegliate al mondo: gli abitanti sono
sottoposti a controlli di polizia quotidiani, a procedure
di riconoscimento facciale e a intercettazioni telefoniche di massa. Controlli
indiscriminati e pervasivi che sono degenerati sempre di più fino a raggiungere
un livello inimmaginabile.
A partire dal 2014, come
riportato da uno studio dell’istituto di ricerca di geopolitica “Jamestown
Foundation”, sono stati creati dei centri di detenzione che sarebbero equiparabili
a veri e propri campi di concentramento. Secondo alcuni testimoni, infatti, sarebbe
in atto una vera e propria persecuzione con migliaia di uiguri arrestati
arbitrariamente e rinchiusi in strutture detentive sorvegliate 24 ore su 24. Abdusalam
Muhemet, ex detenuto intervistato dal “New York Times”, venne arrestato a 41
anni per aver recitato ad un funerale un passo del corano, altri testimoni
parlano di persone arrestate per aver indossato una maglietta riconducibile all’islam
o aver fatto visita a parenti all’estero. Una volta arrestati sarebbero
sottoposti a una sorta di rieducazione forzata con cui le autorità cinesi
stanno provando ad eliminare la tradizione uigura ed uniformarla a quella
cinese eradicando di fatto la religione islamica considerata pericolosa e
deviante. Una rieducazione condotta attraverso torture che vanno dall’isolamento
al waterboarding passando per tecniche invasive di privazione del sonno. Accuse
sempre respinte dalla Cina che, grazie all’inaccessibilità delle strutture, nasconde
quanto accade all’interno e parla di detenzioni preventive per estremisti
religiosi e di operazioni di “addestramento volontario” della popolazione
uigura. Una posizione, quella cinese, che sta dividendo la comunità
internazionale. Se da
una parte 23 paesi tra cui Regno Unito , Germania , Francia , Spagna , Canada , Giappone , Australia e Stati
Uniti hanno firmato una lettera congiunta alle Nazioni Unite chiedendo la
chiusura dei campi, dall’altra più di 50 paesi hanno elogiato all’UNHCR i “notevoli
risultati della Cina nello Xinjiang”. Per la gioia del governo cinese.
Xinjiang Papers – Ma il
governo cinese, ora, non può più nascondersi. In quella che è stata definita
come “la più grande fuga di notizie nella storia della Cina, il “New York Times”
ha pubblicato 400 pagine di documenti che riportano le attività cinesi nella
regione. Forniti da un funzionario cinese che, ovviamente, preferisce rimanere
anonimo, i “Xinjiang Papers” sarebbero costituiti da una mole immensa di
documenti riservati e discorsi rilasciati in occasioni riservate dal presidente
Xi Jinping e da altri alti funzionari del partito.
Emergerebbe un piano partito
direttamente dal presidente e gestito dai vertici del partito che prevede una “lotta
totale e senza alcuna pietà contro terrorismo, infiltrazioni e tentativi di
separatismo”. Ma se nei discorsi pubblici Xi Jinping si mostra più aperto e
propenso ad una mediazione pacifica con gli Uiguri, nelle trascrizioni di
conversazioni private appare estremamente deciso e cinico. Critica duramente il
legame con la religione della minoraza turcofona e sprona i sui uomini a
mettere in atto una “trasformazione” del popolo uiguro per contrastare il
terrorismo. Una trasformazione da attuare in parte con strumenti tecnologici,
dall’altra con tecniche già collaudate dalla polizia cinese come gli
interrogatori forzati di amici e parenti. Ma se il passaggio sul presidente
risulta estremamente importante perché dimostra un suo coinvolgimento diretto
sempre negato finora da Pechino, i passaggi più drammatici sono quelli che
riguardano altri due funzionari: Quanguo e Wang.
Quanguo venne mandato nello
Xinjiang nel 2016 e sotto il suo controllo si assistette ad una stretta
repressiva senza precedenti. Secondo quanto riportato dai documenti trapelati,
nel febbraio 2017 avrebbe radunato le truppe cinesi in una vasta piazza di
Urumqi ed avrebbe tenuto un discorso in cui chiedeva ai suoi uomini di
prepararsi ad “un offensiva devastante e distruttiva” per le settimane
successive. Un’offensiva che, a tutti gli effetti, ci fu per davvero: vennero
infatti eseguiti nella regione arresti di massa con migliaia di uiguri che in
poche settimane finirono chiusi nelle prigioni dello Xinjiang. Sotto la guida
di Quanguo la regione venne minilitarizzata e le libertà degli uiguri represse
ad ogni livello secondo la concezione del funzionario che interpreta l’operazione
nella regione come “una guerra di offesa prolungata e determinata per la
salvaguardia della stabilità”.
Ma se Quanguo mostra il volto
spietato della Cina, Wang rappresenta quello più umano. Se pubblicamente,
infatti, appoggiava totalmente la politica del governo centrale nei sui
discorsi privati emerge più fragile e meno convinto. Dovendo sottostare agli
ordini di Pechino, Wang fece costruire “due nuove strutture di detenzione
tentacolari stipando lì oltre 20.000 persone” ed aumentò drasticamente i fondi
per le forze di sicurezza raddoppiando le spese per posti di blocco e impianti
di sorveglianza. Ma ogniqualvolta ne avesse l’occasione, Wang chiese ai vertici
del partito e ai colleghi della regione di affrontare la questione uigura in
modo differente: “propose” stando a quanto riporta il New York Times “di
ammorbidire le politiche religiose del partito, dichiarando che non c’era nulla
di sbagliato nell’avere un Corano in casa e incoraggiare i funzionari del
partito a leggerlo per comprendere meglio le tradizioni uigure”. Nei sui piani
vi era infatti una politica di sviluppo economico della regione che, secondo
lui, avrebbe fatto il bene dell’intera Cina ma era resa impossibile dalla
detenzione degli uomini in età lavorativa. Una voce fuori dal coro che, inevitabilmente,
venne presto messa a tacere con l’arresto. E non fu l’unico: secondo i dati che
emergono dai documenti, nel 2017, “il partito ha aperto oltre 12.000
indagini sui membri del partito nello Xinjiang per infrazioni nella lotta
contro il separatismo”.
Una storia che va avanti
dunque da quasi un secolo. Una storia fatta di repressione e neagazione dell’autodeterminazione
per il popolo Uiguro. Un popolo ricco di storia e tradizioni tramandate da
migliaia di anni e rimaste intatte. Come i testi del poeta uiguro Lutpulla Mutellip
la cui tomba è stata distrutta, insieme a molte altre, per lasciar spazio ad un
parco zoologico per famiglie. Un ultimo, disperato tentativo di cancellare le
radici di un popolo che non può e non vuole lasciarsi calpestare. Non può e non
vuole restare sotto il controllo di una potenza che ne tarpa le ali e i sogni. Perché
come scriveva Mutillup:
“Nel profondo
oceano dell'amore sono un'onda,
Come potrei
soddisfare la mia sete da un piccolo stagno?”
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