Ma salvare le
foreste
vuol dire salvare l'uomo,
perché l'uomo non può vivere
tra acciaio e cemento,
non ci sarà mai pace,
mai vero amore,
finché l'uomo non imparerà
a rispettare la vita.
vuol dire salvare l'uomo,
perché l'uomo non può vivere
tra acciaio e cemento,
non ci sarà mai pace,
mai vero amore,
finché l'uomo non imparerà
a rispettare la vita.
“La foresta amazzonica non è patrimonio dell’umanità, ed è
sbagliato dire che sia il polmone del mondo. La foresta è del Brasile, basta
mettere in dubbio la nostra sovranità”. Era il settembre scorso quando, dal
podio dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Jair Bolsonaro attaccava leader
mondiali e media arrogandosi il diritto di decidere il futuro della foresta
amazzonica. Ora, a quasi cinque mesi da quelle dichiarazioni, il presidente
brasiliano sta provando a fare quello che nessuno aveva osato fare prima di
lui: anteporre gli interessi economici alla salvaguardia dell’Amazzonia.

Come diventa normale affidare il Ministero per le Miniere
e l’Energia ad un ex militare senza esperienze politiche né tantomeno nel
settore energetico. Si tratta in questo caso dell’Ammiraglio Bento Albuquerque
protagonista, insieme al presidente brasiliano del nuovo piano di sfruttamento
dell’amazzonia. I due hanno infatti presentato alla stampa, in occasione della
conferenza stampa per i 300 giorni del governo Bolsonaro, il nuovo piano per lo
sfruttamento delle risorse minerarie presenti nei territori indigeni consegnato
dallo stesso Albuquerque al termine dell’incontro al presidente della Camera,
Rodrigo Maia, che nei prossimi giorni darà inizio all’iter per l’approvazione.
Il provvedimento rappresenta il culmine della politica attuata dall’esecutivo nonché
la realizzazione di quelle promesse fatte dal Bolsonaro durante la campagna
elettorale. Con questa legge, se approvata, si aprirebbe allo sfruttamento
delle risorse petrolifere e minerarie presenti nella foresta amazzonica e
finora rimaste intatte. Il parlamento sarebbe chiamato di volta in volta a
concedere o meno l’autorizzazione alle varie società per sfruttare i giacimenti
o realizzare opere idroelettriche previo un parere, non vincolante, delle tribù
indigene. E proprio quelle tribù sono quelle maggiormente a rischio, il
provvedimento aprirebbe infatti ad uno sfruttamento massiccio della foresta
pluviale per finalità economiche senza prevedere vincoli né per lo sfruttamento
delle risorse, attualmente utilizzate solamente dagli indigeni in minima
quantità, né per i territori interessati da tali attività. È un vero e proprio
attacco alle riserve indigene con una decisione che nessuno fino ad ora aveva
mai osato prendere. Se il congresso dovesse approvare il disegno di legge,
infatti, centinaia di tribù rischierebbero di rimanere senza terra, sfrattati
dalle riserve che occupano da millenni per perseguire uno sviluppo economico
obsoleto già in partenza. La vita di centinaia di tribù in cambio di risorse
che tutto il mondo cerca di eliminare: petrolio, gas e carbone.

Nei giorni scorsi è arrivata la nomina del missionario
evangelico Ricardo Lopez Dias alla guida del Funai, l’agenzia governativa agli
affari indigeni. Un missionario evangelico dovrà dunque gestire i rapporti con
le tribù incontattate nel delicato passaggio per lo sfruttamento delle risorse
in quei territori con tutti i rischi che ciò può comportare. E le critiche non
sono mancate. Diversi attivisti hanno ricordato la precedente esperienza di Dias
nella New Tribes Mission (oggi Ethos360), un’organizzazione fondamentalista che
con le sue missioni nel cuore della foresta amazzonica cerca di portare ad un’evangelizzazione
forzata delle tribù incontattate. “È come mettere una volpe a guardia del
pollaio” è stato il commento lapidario della ong “Survival International”
che da anni si occupa di difendere i diritti delle popolazioni indigene messi in
serio pericolo da un Bolsonaro che “cede agli interessi evangelici e di
proselitismo, minando una politica secolare di rispetto per le popolazioni
indigene”. La nomina di Dias si aggiunge così a quella di un altro pastore
evangelico, la ministra dei Diritti Umani Damares Alves che, insieme al Funai,
ha il compito di delimitare i confini delle terre indigene. Due figure che
hanno già dimostrato, con una sola dichiarazione, di poter rappresentare il più
grande problema per la storia recente dei popoli indigeni: “Nessun rapporto
con le ONG. Ora l’indiano deve parlare direttamente con noi e lavoriamo per
soddisfare le sue vere necessità”. Due missionari evangelici fondamentalisti
a curare i delicati rapporti con popolazioni che non vogliono aver contatti con
la società. Non è un libro di storia aperto sul capitolo del colonialismo. È la
drammatica situazione del Brasile di oggi.
Disboscamento – E se gli indios sono in pericolo, la
loro casa non è certo al sicuro. Dove prima c’era il verde ora campeggiano
macchie giallastre, dove prima c’erano gli alberi ora la desolazione. Nel 2019
la deforestazione è aumentata del’85% rispetto all’anno precedente con oltre
9.000 chilometri quadrati di vegetazione persi per sempre. E in questo 2020 la
rotta non sembra destinata ad invertirsi, al contrario. Nel solo mese di
gennaio, stando ai dati dell’Inpe basati sul sistema di monitoraggio DETER, 284,
27 chilometri quadrati sono già andati distrutti con un incremento del 108% rispetto
al gennaio 2019. Dati allarmanti che indicano come i fattori che hanno potato
ad una deforestazione record durante tutto lo scorso anno, non siano cambiati. Alimentata
e coperta dal governo la deforestazione rischia di non fermarsi nemmeno quest’anno.
E mentre le autorità brasiliane nascondono i crimini ambientali e tentano di
legalizzarli, il polmone del mondo muore per far vivere il profitto. Per
arricchire i pochi e far morire gli altri. Però forse non è il momento di
perdere la speranza ma di combattere ancora di più contro chi abusa del mondo condannandoci
tutti. Perché gli alberi continuano a cadere. Gli indios continuano a morire.
Ma forse un giorno uomo e foresta vivranno insieme. Speriamo che quel giorno
arrivi presto.
Commenti
Posta un commento